
L'Alluvione del '66.
Piazza Savonarola
La prima elementare e parte della seconda, le ho fatte in una scuola privata inglese, gestita da Miss Berbridge (non so
se rammento bene lo spelling): era situata in piazza Savonarola, all'angolo con via dei Della Robbia, dove adesso c'è la sede della
Syracuse University. Un bell'edificio, facilmente distinguibile.
Non ricordo, ahimè, neanche un nome dei miei compagni di classe. L'aula era al pian terreno e fuori c'era un piccolo parco giochi per la
ricreazione. Credo che ci fossero in tutto una quindicina di bambini. Lì ho imparato a leggere e scrivere in inglese.
Quando iniziò la seconda elementare, la classe veniva tenuta in quello che mi sembra fosse un salotto di abitazione (eravamo solo 4 o 5
pargoli), all'imbocco di via dei Della Robbia, praticamente adiacente ai locali frequentati in precedenza.
Venivamo seduti non in banchi scolastici, ma attorno a un normale tavolo da casa. Mi ricordo di tanti dettati e qualche traccia rimane
in alcuni quaderni che possiedo ancora.
Questa esperienza, comunque, durò poco. Prima della metà dell'anno i miei gentori decisero di trasferirmi in una scuola italiana e scelsero
il Collegio "Alla Querce", in via della Piazzola.
Non posso dire che per me fu un trauma, ma certamente mi colpì il contrasto: non più la stanza di un'abitazione, ma una vera e propria
classe, con i banchi, la lavagna, tanti altri bambini e una simpatica signora anziana vestita di un grembiulie nero: la maestra (la
Sig.na Elisabetta Francini). Il grebiule, nero e col colletto bianco, lo dovetti indossare anche io, come tutti gli altri
alunni. Questo mio 'ingresso' in classe lo ricordo come se fosse ora, anche perché la sensazione di essere arrivato 'in ritardo' (ad anno
iniziato) e di aver perso ciò che gli altri avevano già fatto e imparato, mi ha sempre seguito fin da quel giorno.
C'era poi l'enormità della scuola: a partire dall'ingresso, dove al bancone c'era sempre il simpatico portiere Oreste.
Dall'ingresso partiva un grande scalone, che portava alla chiesa, sulla detra, a uffici e altri corridoi sulla sinistra, e di fronte un
altra scalinata che conduceva su per due piani di aule: le elementari, le medie e il liceo.
L'intero complesso era un labirinto di corridoi, che poi ebbi modo di esplorare negli anni successivi. C'era inoltre un teatro,
occasionalmente usato anche come cinema, dove venivano tenute le premiazioni di fine anno, con relativo saggio di alunni scelti a
tale scopo, e piccole rappresentazioni teatrali dei più piccini in particolari occasioni.
In uno dei piani superiori, c'era un museo: alcune sale con animali imbalsamati e antichi strumenti. Ricordo in particolare alcune
"pile di Volta", usate per dimostare i primi studi sull'elettricità. Ricordo che aggirarmi per quegli ambienti mi metteva un po' di
soggezione. Se non ricordo male, c'era anche un vecchio scheletro, per lo studio dell'anatomia. Chissà dove sia finito tutto questo,
quando l'istituto venne chiuso definitivamente.
Testata della Rivista "La Querce"
Superati gli esami della 5a elementare, passai alla Prima Media. Non più una sola mastra, ma diversi insegnanti, il principale
dei quali era il Prof. Giuseppe Mora (lingua italiana). Visto che in inglese era già un po' pratico, scelsi di seguire
la lezioni di francese.
Durante i tre anni delle medie, entrai a far parte del repart Scout, internoa all'istituto stesso, e guidato dal Prof.
Giorgio Pratesi, un insegnante che dedicò tantissime energie a dare impulso e a far crescere il gruppo.
facevo parte della squadriglia delle "Pantere" e in un'estate, partecipai anche a un campo estivo, a Madonna di Campiglio.
Ricordo che con me c'erano Marco Gheddes, Carlo Mugnai, ?? Funaioli, Giovanni Tani.
Il campo fu veramente molto divertente: ci costruimmo panche, tavoli e altri oggetti usando legna che ci era stata messa a disposizione o
che potevamo tagliare da alcuni alberi. Il giorno camminate nei boschi, la sera il "bivacco" attorno al fuoco con racconti e
qualche cantata in coro.
Tutto filò quasi senza problemi, a parte qualche giorno di intensa pioggia. Il Prof. Pratesi trascorse la notte sul ponte del fiume
accanto al quale si trovava l'accampamento, per paura che l'acqua tracimasse.
L'unico altro 'incidente' di nota, avvenne durante un gioco tra squadriglie. C'erano 'attaccanti' e 'difensori' e lo scopo era,
ovviamente, di muoversi tra le sterpaglie senza farsi individuare. Nel silenzio della valle risuonò un grido disperato. I gioco venne
immediatamente sospeso per cercarne la causa. Uno degli attaccanti, per nascondersi, si era gettato a capofitto in un cespuglio..
di ortiche! Sopravvisse, ovviamente, ma credo che da lì in poi sia stato molto più cauto nelle sue incursioni. E se non
sbaglio fu proprio Giovanni Tani.
Senza grandi onori, arrivai in terza media e all'esame finale. Mai stato uno studente modello, riuscii comunque a superarlo.
Tra i miei compagni di quegli anni, ne ricordo alcuni: Marco Bresciani, col quale condivido una profonda amicizia ancora
oggi, Marco Fantacci, Francesco Calamai, Andrea Doni, Stefano Poli, Stefano Burgassi, Antonio e Marcello Fratini e Fabrizio Sorbi.
Superato l'esame. venne il momento di decidere gli studi futuri. Il Liceo Classico non mi attirava per nulla: preferivo quello
Scientifico, che però a "La Querce" non c'era. Decisi quindi di farmi iscrivere al Liceo Statale "Leonardo da Vinci".
Il Solex
La mia vita liceale è stata ricca di eventi, soprattutto legati all'età, al periodo storico e... alla natura.
Ebbi molto difficoltà iniziali nell'inserirmi in una scuola pubblica, molto diversa dall'ambiente dal quale provenivo e
provai, di nuovo, quella sensazione di 'essere in ritardo': piccole cose che altri davano per scontate per me erano del tutto
ignote. Col tempo superai questo impatto iniziale, che vide uno scontro/chiarimento con la Professoressa di Lettere.
Il mio primo mezzo di trasporto fù un Solex, un parente del Mosquito e precursore della 'pedalata assistita'.
Qualche anno più tardi, ci fù il Motom Nova, un 48cc, col quale davo giornalieri passaggi al mio compagno di banco,
Andrea Valboni, fino al Liceo Dante (è lì che avevamo le nostre 'ragazze').
Motom - Nova (1967)
Riconosco che lo studio, specie con gli ormoni in forte subbuglio, era lontano dai miei primi obiettivi. Il fenomeno 'Beatles' in piena espansione, la musica (vedi qui) e 'le ragazze' erano i temi predominanti. Eravamo soprattutto alla ricerca di una nostra identità e personalità, anche se non indifferenti alle mode. Mi ricordo l'enorme ondata di cappellini alla "John Lennon", i capelli molto più lunghi di quanto i nostri genitori avebbero preferito, l'abbigliamento decisamente anti-conformista. Poi, nel Novembre del '66, ci fu l'Arno a dire sonoramente la sua (ne parlo qui).
Infine, ci fu anche la tumultuosa stagione del '68, sulla quale tanto e forse troppo si è già scritto. Ricordo solo che la nostra
classe (nella sezione D, 13 alunni, una classe piccola perché avevamo scelto il tedesco come lingua) si ritrovò isolata, circondata dal
profondo rosso delle proteste e manifestazioni che ci furono.
In qualche modo, arrivammo agli esami di maturità e, superati quelli, ognuno è andato per la sua strada.
Nel 2019 c'è stato un tentativo di riunire quella classe, la 5aD: ci siamo riuniti in poichi (Anrea Nardi, Carlo Ressel,
Fabio Torrini, Andrea Valboni e il sottoscritto. Delle due fanciulle di classe, solo Luisa Santini è spuntata fuori da Facebook
recentemente, di Stefania Pianigiani non abbiamo notizie. Putroppo tre dei nostri ex-compagni se ne sono andati ancora giovani: Michele Marino,
Antonio Martini e Massimo Fasoli.
A cavallo tra l'ultimo anno di liceo e l'università, detti fondo a tuti i miei risparmi per acquistare una motocicletta (usata): una Gilera 5V, che mi affrettai a modificare in stile "Easy Rider": manubrio a 'corna di bue', con tanto di pendagli in cuoio, e schienale ad arco, realizzato da un fabbro di Rufina. La cilindrata era poca (125cc.), ma il divertimento fu tanto.
La Gilera 5V
La scelta di passare all'Università fu quasi automatica e, forse, presa con una certa leggerezza. Inizialmente orientato per "Ingegneria",
scelsi invece "Fisica". Ero ancora sotto il fascino liceale della Fisica Classica e Ingegneria era, per dire, inflazionata.
Come mio solito, 'arrivai in ritardo': ero in Inghilterra per la consueta pausa estiva e nulla sapevo che la Facoltà aveva anticipato
l'inizio delle lezioni. Fu un inizio... non propizio. Il mio abbigliamento 'beat', la mia capigliatura lunghetta, la vecchia Riley gialla
del '48 parcheggiata nei vialetti di Arcetri non giocarono certo a mio favore e, credo, venni preso un poco in antipatia dal collegio
accademico. Non ho alcuna remora a confessare che la cosa era ampiamente reciproca.
Io con la Riley 2.5
Se non erro, il primo anno del corso eravamo 32 in tutto. Praticamente quanti in una classe di liceo. Tra loro ritrovai tre conoscenze:
la sorella di un mio ex-compagno della "Querce", Roberto Giubilaro un mio ex-compagno di Liceo,
Antonio Martini e Pierfranco Maturo, col quale ho mantenuto poi una profonda amicizia, fino alla sua recente scomparsa.
Al contrario di me, Antonio prese lo studio studio con esagerata foga. Animato certamente dalle più buone e meritevoli intenzioni,
trascorreva tutto il tempo sui libri. Non finì bene, perché gli venne un terribile esaurimento nervoso, che ebbe gravi conseguenze
sul suo stato mentale. Pochi anni dopo morì.
Con Pierfranco, invece, si sviluppò immediatamente una grande simpatia. Entrambi appassionati di elettronica e di musica, passavamo
ore in compagnia, anche fuori dal'ambito dello studio. Pierfranco soffriva, sin dall'infanzia, di una grave forma di poliomielite che lo
costringeva a aiutarsi con uno o due bastoni. Negli anni che seguirono ciò non gli impedì di lavorare ai telai di serigrafia per 12/14 ore al
giorno.
Nel primo anno trovai le lezioni interessanti, perché sembravano confermare la mia scelta. C'era il laboratorio di fisica, dove sperimentavamo le elementari leggi di Fisica. In seguito, le materie diventarono per me troppo astratte e teoriche e non riuscii ad appassionarmi abbastanza. Incontrai uno scoglio: il Prof. Manlio Mandò. Al primo esame, che stava andando piuttosto bene, ci fu un'ultima domanda alla quale risposi forse con disattenzione e che ribaltò il risultato. Ritentai altre due volte in seguito, ma ogni volta c'era una qualche domanda insidiosa. Ho saputo solo anni e anni dopo che il suddetto professore non aveva in gran simpatia gli inglesi (per via della Guerra) e mi chiedo se questo non abbia influito, a parte la mia probabile ignoranza della materia.
Ho sempre avuto la sensazione che in quella Facoltà più che l'insegnameno, avesse maggior attenzione la ricerca di geni "in pectore".
Rimasi molto deluso del sistema universitario e non fui il solo a lasciare, dopo un paio d'anni.
La vita è piena di sorprese e, se avessi continuato, non avrei certamente vissuto tutte le esperienze, belle e brutte, che sono poi seguite.
Ricordo con simpatia due compagni di studio di quel periodo: Maurizio Conti (ritrovato ultimamente grazie a Facebook) e Stefano(?) Porciani.
Agli sgoccioli della mia (mancata) carriera universitaria, iniziai a cercare un lavoro, come racconto in
quest'altra pagina).